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Sentenza

Piano Condor: anche i "quadri intermedi" dell'apparato repressivo ...
Piano Condor: anche i "quadri intermedi" dell'apparato repressivo devono ritenersi responsabili di omicidio di italiani residenti in Argentina.
Cass. pen., sez. I, ud. 9 febbraio 2022 (dep. 22 settembre 2022), n. 35303

Presidente Zaza – Relatore Cappuccio

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 17 gennaio 2017, la Corte di assise di Roma ha, tra l'altro: dichiarato M.B.C.F.) e R.F.G. colpevoli degli omicidi, loro ascritti al capo 12) dell'imputazione, di C.P.H.D. e G.L.I.V., assorbiti nei delitti di cui all'art. 630 c.p., comma 3; condannato gli imputati, ciascuno, alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di due anni; loro applicato le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, dell'interdizione legale per tutta la durata della pena e della pubblicazione, per estratto, della sentenza di condanna mediante affissione all'albo del Comune di Roma e nel sito Internet del Ministero della Giustizia per la durata di trenta giorni; condannato i predetti imputati a risarcire il danno cagionato alle parti civili costituite, liquidato, in via equitativa, nella somma di Euro 500.000 per ciascuna di loro, ed a rifondere, in favore delle stesse, le spese relative all'azione civile. Contestualmente, la Corte di assise ha, invece, assolto M.G.M. dal delitto di omicidio contestato al capo 12) per non aver commesso il fatto e dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti in ordine al reato di sequestro di persona, perché estinto per intervenuta prescrizione. 2. La Corte di assise - che ha giudicato un elevato numero di imputati, di diverse nazionalità, e, tra di loro, gli odierni ricorrenti, cittadini peruviani, la cui posizione è stata separata in sede di legittimità - ha fondato la propria decisione sulle prove testimoniali assunte (dichiarazioni dei familiari degli scomparsi, dei sopravvissuti alla prigionia e alle torture, di esperti del periodo storico in oggetto) e sulla documentazione acquisita (documenti ufficiali delle commissioni di inchiesta istituite dai governi civili successivamente insediatisi nei vari paesi del Sud America e di organismi internazionali, interessatisi della sorte dei desaparecidos) ed è pervenuta alla conclusione che le forze militari dei regimi dell'America Latina, dopo l'instaurazione di sistemi dittatoriali con sospensione delle garanzie costituzionali, hanno commesso, a partire dalla metà degli anni '70 del secolo scorso, un elevato numero di gravissimi crimini nei confronti degli oppositori politici, molti dei quali cittadini italiani, residenti in Uruguay o rifugiati in Argentina ed in altri paesi del Sudamerica. La pesante azione repressiva delle opposizioni politiche e delle ideologie ritenute sovversive è stata attuata mediante operazioni illegali di arresto, sequestro, tortura, trasferimento all'estero, sparizione e soppressione fisica, con sistematicità e coordinamento tra i servizi di intelligence dei vari paesi aderenti al c.d. "sistema Condor" o "plan Condor", la cui esistenza risulta accertata grazie a plurime fonti documentali, provenienti anche dai servizi segreti statunitensi (CIA). Il Piano Condor è consistito in un accordo fra i governi di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia - cui in seguito hanno aderito, rispettivamente nel 1978 e nel 1980, Perù e Brasile - avente ad oggetto, agli inizi, lo scambio di informazioni riguardanti gli appartenenti ai movimenti di opposizione ai regimi dittatoriali che avevano assunto il potere negli Stati del Cono sud dell'America latina e, successivamente, volto a consentire sequestri, torture e omicidi di rivoluzionari ed oppositori, con l'accordo del paese ospitante, ove la vittima si fosse rifugiata, e con garanzia di assoluta impunità. 3. La Corte di assise ha, come detto, ritenuto M.B.F. e R.F.G. colpevoli dei delitti di omicidio contestati al capo 12), siccome assorbiti, in ragione della disciplina vigente alla data del commesso reato, nei delitti di sequestro di persona aggravato sanzionati dall'art. 630 c.p., comma 3. Più in generale, ha ritenuto la responsabilità, in ordine al delitto di omicidio volontario premeditato, delle sole figure apicali, cioè dei vertici delle strutture gerarchizzate nella cornice di una dittatura militare, che hanno diramato gli ordini da cui sono scaturite le operazioni illecite, dagli iniziali sequestri di persona a scopo di estorsione alle successive uccisioni delle vittime. Con riguardo, invece, ai quadri intermedi o addirittura di basso rango, tratti a giudizio, la prima Corte, ancorché ne abbia ravvisato il sicuro coinvolgimento in alcuni segmenti della vicenda (l'individuazione dei bersagli, il sequestro e la tortura), è pervenuta, in ragione dell'assenza di prova piena di compartecipazione agli omicidi, a decisione assolutoria. 4. La Corte di assise di appello di Roma, investita dagli appelli presentati dal locale Procuratore generale, dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, dalle parti civili e dagli imputati, in riforma della decisione di primo grado, ha, tra l'altro, dichiarato M.G.M. responsabile del delitto di omicidio volontario pluriaggravato continuato ascrittogli al capo 12) della rubrica e lo ha condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per due anni, oltre che alle pene accessorie di legge; nel resto, ha confermato la sentenza appellata. 4.1. La Corte territoriale, per quel che qui rileva, ha affermato, nel merito, di non condividere la sentenza impugnata con riguardo alle assoluzioni pronunciate, giacché il primo giudice, che pure ha ampiamente riportato le dichiarazioni dei testimoni escussi e la documentazione ufficiale cui questi si sono richiamati, ha omesso di considerare il restante compendio probatorio documentale in atti, avente ad oggetto i profili personali degli imputati, i compiti da questi svolti nel periodo considerato e l'articolazione degli apparati repressivi costituiti in ciascun paese aderente al Piano Condor. L'analisi che ne è conseguita ha, pertanto, sofferto di incompletezza e le conclusioni raggiunte non hanno colto appieno il significato di quanto acquisito, rivelandosi frettolose e contraddittorie con le, pur corrette, premesse enunciate. 4.2. La peculiarità di tale situazione processuale, ad avviso della Corte di secondo grado, la ha esonerata dall'obbligo, sancito dalla giurisprudenza sovranazionale e di legittimità in caso di reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado, di procedere a rinnovare, anche solo parzialmente, l'istruttoria dibattimentale. Nel caso di specie, invero, non si è proceduto, hanno rilevato i giudici di appello, alla rivalutazione, sotto il profilo dell'attendibilità, di prove dichiarative ritenute decisive, ma, piuttosto, a fornire "una lettura coerente e logica del compendio probatorio palesemente travisato nella decisione impugnata". Nessuna violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, sarebbe, dunque, ipotizzabile, dal momento che non possono costituire prove decisive suscettibili di rinnovazione gli apporti dichiarativi il cui valore probatorio, in sé inidoneo a formare oggetto di opposte valutazioni tra primo e secondo grado, è destinato a combinarsi "con elementi di diversa natura, non adeguatamente valorizzati o addirittura pretermessi dal primo giudice, ricevendo da questi ultimi, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell'affermazione di responsabilità" (così Sez. 6, n. 34541 del 12/03/2019, Berlingeri, Rv. 276691). Consapevole dello specifico onere motivazionale incombente al giudice di appello nel caso di riforma di una decisione assolutoria emessa dal primo giudice, costituito dalla "forza persuasiva superiore" del suo argomentare, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, la Corte capitolina, concludendo sul punto, si è impegnata a considerare ex novo e nella loro interezza le prove testimoniali assunte in primo grado unitamente alle prove documentali già in atti, a suo avviso trascurate dal giudice di primo grado, e a quelle prodotte e acquisite nel giudizio di secondo grado. 4.3. I giudici del gravame hanno, poscia, esposto le ragioni che determinarono la nascita del Piano Condor e dell'apparato di intelligence e repressivo che venne conseguentemente predisposto dagli Stati aderenti all'accordo, per poi passare in rassegna, nella loro ricostruzione fattuale, gli omicidi oggetto del procedimento ed esaminare, infine, le prove dichiarative e documentali raccolte, a carico di ciascun imputato, nei due gradi di giudizio. Nelle conclusioni, la Corte di assise di appello ha osservato che il Piano Condor, stipulato tra Paesi dell'America latina governati da dittature militari, ha avuto l'effetto di creare una situazione di omogeneità, tra i suddetti Paesi, quanto alla lotta condotta contro gli oppositori, sia per la circolazione delle informazioni sugli appartenenti a ciascun gruppo rivoluzionario sia per la collaborazione creatasi, in forza della quale ciascun Paese poteva arrestare i propri residenti, ovunque fossero riparati, avvalendosi dell'ausilio del Paese ospitante e con garanzia di totale impunità. Tale situazione decretò l'efficacia e l'incisività dell'azione di contrasto ai gruppi di opposizione, che si realizzò su vastissima scala, arrivando ad annientare alcune delle formazioni rivoluzionarie (GAU, AMS e la struttura clandestina esistente, all'inizio del 1979, del PCU) e rese del tutto inutile l'emigrazione degli esuli da un Paese all'altro del Cono sud dell'America latina, poiché il sistema di informazione e di collaborazione, sussistente tra i vari Paesi aderenti, consentì di controllarne gli spostamenti e di eseguire gli arresti anche fuori del paese di origine. I giudici dell'appello hanno sottolineato che a volere tutto questo furono i capi politici e militari dei Paesi interessati, i quali formalizzarono il Piano Condor con le note finalità, dando, così, veste ufficiale e sistematica a un'attività di collaborazione che durava già dal 1974 ed ebbe a estendersi e a consolidarsi negli anni seguenti. La fase esecutiva si realizzò, da un lato, attraverso la deviazione di istituzioni, già esistenti, dagli obiettivi ufficiali per i quali erano state create e, dall'altro, mediante l'istituzione di apparati ad hoc per lo svolgimento dell'attività di intelligence e repressiva. Le evidenze del processo hanno dimostrato, a giudizio della Corte, che il personale di questi organismi era solito operare in stretto contatto con i vertici militari e con i capi dei governi del Paese di appartenenza con i quali condivideva gli "ideali", dai quali riceveva le direttive ed ai quali forniva periodiche relazioni sull'andamento dell'attività repressiva che organizzava in piena autonomia, avvalendosi di collaboratori fidati. Alcuni di loro, inoltre, rivestivano, al contempo, l'incarico di ufficiali di collegamento con i corrispondenti apparati dei paesi amici, in attuazione di quella collaborazione e circolazione di informazioni, di cui si è detto, che accompagnò l'attività repressiva in esame. Del resto, ad avviso della Corte di merito, è ragionevole ritenere che gli ideatori del Piano Condor, individuato l'obiettivo da raggiungere, si siano affidati, per la sua realizzazione, a persone di provata fiducia che ne condividessero gli intenti e fossero in grado di tradurre in atto quanto da loro teorizzato. Poiché, d'altro canto, l'attività repressiva è stata pensata su larga scala, la sua esecuzione ha richiesto, necessariamente, autonomia nella scelta dei tempi, dei luoghi di intervento e delle persone da colpire (purché appartenenti ai gruppi di opposizione oggetto di attenzione), ampiezza di poteri, spirito di iniziativa e capacità di fronteggiare gli imprevisti per assicurare il successo di operazioni fondate, sostanzialmente, sulla sorpresa della vittima e sulla celerità dell'arresto. La diversa opinione - secondo cui tutti i soggetti non appartenenti ai vertici politici e militari ma che, a vario titolo, erano inseriti nel meccanismo di repressione, pur senza avere commesso, materialmente, gli omicidi, avevano un'autonomia limitata all'arresto della vittima, ignorandone la sorte ultima - non ha dunque trovato, secondo la Corte di assise di appello, riscontro in atti, e, essendo stata smentita dalle prove raccolte, e', logicamente, da scartare, atteso che un meccanismo così predisposto si sarebbe connotato, in quel caso, per lentezza nella sua esecuzione ed imprecisione ed avrebbe prodotto, in definitiva, risultati insoddisfacenti. Al contrario, una volta provato che l'attività repressiva è stata condotta con perizia e determinazione ed ha conseguito un notevole risultato, anche in termini di numero di vittime, deve inferirsi che gli imputati definiti dal primo giudice "quadri intermedi" erano tutt'altro che subalterni e ignari di quanto stava accadendo, ma, al contrario, pur dipendenti, nella scala gerarchica, dai vertici militari e dai capi di governo, andavano considerati come i loro più stretti collaboratori, costituenti un'e'lite stabile e immutabile nella sua composizione, titolari di ruoli di rilievo all'interno dell'intelligence e delle strutture di coordinamento e repressione della lotta sovversiva, e dotati, come detto, di autonomia decisionale nell'organizzazione di operazioni, mezzi, uomini e risorse economiche. Costoro, dunque, conoscevano l'obiettivo perseguito dai loro superiori ed erano consapevoli di concorrere, con l'individuazione delle singole persone da arrestare, al conseguimento del risultato. I Giudici di secondo grado hanno notato, ancora, che, nei centri di detenzione, anche i detenuti erano coscienti della sorte loro riservata, in forza sia delle informazioni esplicite che ricevevano dagli stessi carcerieri, sia delle modalità, anche temporali, con le quali venivano condotti via dal centro senza più farvi ritorno. Per contro, sporadici interventi dei vertici, di revoca dell'ordine di uccisione, erano avvenuti, per quanto accertato in dibattimento, solo a fronte di specifiche e sopravvenute esigenze, come esemplificato dalla deposizione resa dal teste, poi deceduto, N.M.A.. La Corte di assise di appello ha premesso che il giudice di primo grado ha valorizzato, nell'ambito di quella testimonianza, la frase: "I trasferimenti potevano avvenire soltanto con l'autorizzazione del generale P., capo del SID uruguaiano", giungendo ad affermare che, nell'ambito della programmata repressione dei gruppi di opposizione, le uccisioni dei singoli dissidenti erano decise solamente dai vertici e non anche dai "quadri intermedi", privi, in materia, di qualsiasi autonomia. Il giudice di appello ha dissentito da tale interpretazione e rilevato, piuttosto, che la lettura dell'intera deposizione induce a formulare, invece, la conclusione esattamente opposta, e cioè che la decisione di eliminare tutti i detenuti del centro clandestino di detenzione, i quali, per questo scopo, erano stati ivi internati, poteva essere modificata, con riguardo ad alcuni di essi, eccezionalmente e solo su ordine del capo del SID uruguaiano, generale P., a fronte di specifiche condizioni sopravvenute - come, ad esempio, nel caso del teste M., l'intervenuta collaborazione, dopo i primi giorni di tortura, di sua sorella del P.M., anch'essa detenuta - il che appare in linea con quanto emerso dal compendio probatorio illustrato ed induce ad inferire che nella sola deposizione del teste M. il termine "trasferimento" è stato utilizzato nel senso del suo significato proprio e non in quello, convenzionalmente attribuitogli, di uccisione. La Corte di assise di appello ha ulteriormente rilevato che la conclusione raggiunta in ordine ai poteri e alle conoscenze dei c.d. "quadri intermedi" non è smentita dalla "compartimentazione" evocata dal giudice di primo grado: il ricorso alla segretezza e all'anonimato deve ritenersi, invero, comprensibile perché posto a tutela di quanti hanno operato, nelle diverse divisioni, in condizione di illegalità, ma non esclude affatto, anzi conferma, la loro consapevolezza in ordine agli obiettivi perseguiti. 4.4. Ciò posto, il giudice di secondo grado ha negato che gli imputati, definiti "quadri intermedi", potessero invocare fondatamente le cause di giustificazione dell'adempimento del dovere e dell'avere agito in stato di necessità. L'applicazione della prima esimente andava esclusa sia perché, in generale, non applicabile in favore di chi aveva agito in esecuzione di un ordine illegittimo impartitogli dal superiore gerarchico, sia perché, nel caso di specie, si era dimostrato che gli imputati non erano semplici subordinati ai propri superiori, ma godevano di autonomia decisionale nello svolgimento dei rispettivi incarichi, il che rendeva, in ogni caso, incompatibile la prospettata esimente. Nemmeno ricorreva lo stato di necessità ex art. 54 c.p., perché, come emerso dalla posizione dell'imputato, assolto, Chavez Dominguez, questi venne più volte sottoposto solo ad arresti semplici, anziché a più pesanti ritorsioni, per il rifiuto di ottemperare agli ordini dei suoi superiori. Secondo la Corte romana, quindi, gli imputati definiti "quadri intermedi", se avessero disubbidito agli ordini, non avrebbero corso rischio di vita, ma, al più, sarebbero incorsi in responsabilità disciplinari e sarebbero stati penalizzati nell'avanzamento delle rispettive carriere, con conseguente inconfigurabilità di un "danno grave alla persona", quale presupposto applicativo della scriminante. In ogni caso, nessuno degli imputati interessati aveva assolto all'onere di allegazione ad esso incombente, avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione. 4.5. La Corte medesima ha, poi, espresso il convincimento che la vicenda, come ricostruita, andasse inquadrata nell'istituto del concorso di persone nel reato continuato, perché tutti i partecipanti, secondo le rispettive posizioni rivestite (ovvero i vertici politici e militari attraverso l'ideazione del Piano Condor e i restanti imputati operando sia nella imprescindibile fase di raccolta e elaborazione e scambio delle informazioni, sia in quella, concreta, dell'arresto, detenzione e tortura delle vittime), contribuirono alla realizzazione dell'evento lesivo (morte delle vittime). E infatti, nel periodo considerato è avvenuto un continuo scambio di informazioni sull'andamento dell'attività repressiva tra i vertici, i militari adibiti alle diverse divisioni del servizio di intelligence e i militari che eseguivano gli operativi (arresti), nonché tra questi e i "colleghi" ricoprenti i medesimi incarichi negli altri paesi aderenti al Piano Condor. La detenzione delle vittime nei centri clandestini costituiva un passaggio obbligato, nella direzione dell'obiettivo finale (omicidio), per il duplice scopo di acquisizione di informazioni che avrebbero ampliato il campo della repressione e di neutralizzazione delle vittime, impedite, a causa delle torture subite, a opporre una qualsiasi resistenza o ad organizzare una fuga. La Corte di assise di appello ha, per converso, escluso che la vicenda possa essere inquadrata nello schema dell'associazione per delinquere (reato, peraltro, non contestato), atteso che il Piano Condor costituì solo un accordo di collaborazione per la realizzazione di un progetto specifico di eliminazione di una limitata categoria di vittime, ancorché non nominativamente o personalmente individuate, senza alcuna creazione di un sodalizio stabile, tra i paesi aderenti, orientato verso futuri crimini solo genericamente e astrattamente previsti, destinato a protrarsi oltre la necessità contingente di eliminare i rispettivi oppositori politici. Nemmeno il numero elevato di vittime, ha aggiunto la Corte, dimostra l'esistenza di un'associazione finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati perché, come chiarito dalla giurisprudenza, ogni volta che i bersagli da colpire siano individuati in funzione dell'appartenenza a specifici gruppi di opposizione ricorre l'ipotesi del c.d. mandato in bianco, che non esorbita dall'ambito del concorso di persone nel reato (cita Sez. 1, n. 48590 del 17/10/2017, Rv. 271551). In forza dell'enunciato principio, la Corte di merito è pervenuta alla conferma dell'affermazione di responsabilità dell'imputato peruviano M.B.F., oltre che del boliviano A.G.L., osservando che, sebbene, nei casi C. e V., gli arresti delle vittime erano avvenuti, nel 1980, in un paese diverso dal Perù e dalla Bolivia (e, segnatamente, in Brasile) ad opera del (OMISSIS), il contributo causale all'evento andava individuato, riguardo ai vertici politici dei due menzionati Paesi, nell'adesione al Piano Condor (avvenuta nel 1978 per il Perù e nel 1975 per la Bolivia) e nella conseguente predisposizione di mezzi e uomini per attuare l'obiettivo di eliminare i gruppi di opposizione al regime. Inoltre, deve considerarsi, sul punto, che l'adesione della Bolivia e del Perù al Piano Condor ahv escluso questi Paesi dal novero degli osservatori internazionali che non condividevano i metodi repressivi utilizzati, all'epoca, dai regimi dittatoriali dell'America Latina, contribuendo, concretamente, a rafforzare la determinazione dei Paesi aderenti che poterono contare sul contributo efficiente degli altri due. 4.6. La Corte capitolina è passata, quindi ad esaminare il contributo causale fornito dagli imputati alla realizzazione dell'obiettivo delittuoso finale, mettendo a fuoco, per ciascuno di essi, gli incarichi rivestiti - M.B.F., quale presidente del Perù; German R. Figueroa e M.M.G., quali vertici dei principali servizi segreti militari di quel paese (la Direccion de Intelligencia del Ejercito e il Servizio de Intelligencia del Ejercito) - e le funzioni in concreto svolte sia in ambito politico e/o militare, sia negli organismi di intelligence. Gli odierni imputati sono stati, dunque, ritenuti responsabili del delitto di omicidio volontario premeditato continuato, perché le uccisioni, lungi dal costituire il frutto di determinazioni subitanee, motivate da situazioni contingenti, sono state il risultato di un'accurata pianificazione, protrattasi nel tempo, senza soluzione di continuità, regolarmente rivalutata per migliorarne l'efficienza e confermata nelle sue linee, con predisposizione di mezzi e uomini e di una capillare rete di informazioni tra i vari paesi aderenti al Piano Condor, per favorire l'agire congiunto delle forze militari di ciascun Paese, fino all'eliminazione finale, di qualunque appartenente ai gruppi di opposizione al regime. Tanto, anche con specifico riferimento agli omicidi, oggetto di specifico addebito, di C.P.H.D. e V.G.L.I.. Il primo, conosciuto con il nome di battaglia "Petrus", era una delle figure di maggior rilievo della organizzazione dei montoneros argentini, nell'ambito della quale era responsabile delle comunicazioni, delle truppe speciali di fanteria e di agitazione, ruolo che lo costringeva a vivere in clandestinità. C. venne sequestrato, insieme a P.d.B.M.S., il (omissis) all'aeroporto di (omissis), mentre cercava, sotto falso nome, di raggiungere l'Argentina per partecipare alla c.d. "controffensiva montonera". I due oppositori, partiti in aereo da Panama, avevano fatto scalo a Caracas e, quindi, nella città brasiliana, ove erano stati arrestati dai militari argentini del (OMISSIS), con la collaborazione delle autorità brasiliane, e trasferiti, quindi, nel paese di origine, ristretti nel centro di detenzione di (OMISSIS) ed erano divenuti, infine, desaparesidos. Il sequestro e la deportazione di C. costituì momento attuativo di una precisa strategia, volta alla fisica eliminazione di tutti i montoneros che, tra il 1979 ed il 1980, tentavano il rimpatrio per avviare la prevista controffensiva e che, secondo quanto indicato dall'ambasciata statunitense a Buenos Aires nel telegramma inviato al Segretario di Stato il 14 maggio 1980, furono, in esecuzione di apposita opzione repressiva, sottoposti a tortura e destinati ad esecuzione sommaria. Vihas, invece, studente universitario rifugiatosi in Brasile nel 1980, all'esito di un periodo di detenzione, venne arrestato in Brasile, nei pressi della frontiera con l'Argentina, mentre, a bordo di un bus, si stava recando ad una manifestazione a Porto Alegre. Trasferito in un luogo di detenzione prossimo a quello di (omissis), divenne ben presto anche lui un desaparecido. 5. M.B.F., R.F.G. e M.G.M. propongono, con unico atto, sottoscritto dal difensore, avv. Luca Milani, ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, alcuni dei quali comuni, la cui esposizione è preceduta da un sintetico inquadramento dei fatti di causa nella temperie storica che condusse i regimi dittatoriali dell'America latina a promuovere la commissione dei crimini in contestazione, la cui atroce efferatezza, meritevole di unanime ed incondizionata condanna, non giustifica, osservano i ricorrenti, che si riconosca dignità processuale a "pregiudizi e aprioristici convincimenti in ordine alla responsabilità dei singoli soggetti che devono essere accertate nel rispetto dei criteri imposti dal legislatore fuori da rocambolesche misinterpretazioni". 5.1. Con il primo motivo, il solo M.M.G. lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla violazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, che, a suo modo di vedere, avrebbe imposto, stante il sovvertimento, in appello, della pronunzia assolutoria di primo grado, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale. Dà atto, in primo luogo, delle considerazioni svolte, in proposito, dalla Corte di assise di appello, non senza aver ricordato che, nell'atto di impugnazione, il pubblico ministero, nel contestare al giudice di primo grado di aver operato una distinzione tra i vertici politico-militari e i c.d. ranghi intermedi, condannando i primi e assolvendo i secondi, aveva fondato la sua impugnazione sulla scorta di una diversa valutazione delle prove assunte in primo grado, sostenendo che anche gli imputati che non avevano rivestito ruoli di comando dovessero essere dichiarati responsabili dei delitti di omicidio volontario, a titolo di concorso sorretto da dolo eventuale, in tal modo censurando la valutazione della prova dichiarativa operata dal primo giudice. La Corte di assise di appello, al fine di non dover procedere alla riassunzione delle prove dichiarative, aveva inteso, dichiaratamente, operare una valutazione delle risultanze documentali e, poi, apprezzare il significato di queste ultime in rapporto all'intero compendio probatorio, offrendone una lettura asseritamente coerente. Ciò posto, il ricorrente manifesta il proprio dissenso sul rilievo che la prova dichiarativa, che si assume essere stata omogeneamente valutata nei due gradi di giudizio, è il fil rouge dell'intero compendio probatorio, alla luce del quale devono essere apprezzati i documenti dai quali, secondo quanto argomentato dal giudice di merito, emergono accordi, dichiarazioni e ruoli degli imputati. Obietta, in specie, che "...non è la prova documentale a mutare il significato probatorio di quella dichiarativa, bensì, quella dichiarativa a permettere una lettura logica e coerente di quella documentale" e che la valutazione operata dalla Corte "ha finito necessariamente per comportare una rivalutazione anche della prova dichiarativa, e ne avrebbe imposto perciò la riassunzione". La considerazione ex novo, nella loro interezza, delle prove acquisite in primo grado non era valsa, comunque, a conferire alla sentenza di appello quella maggiore forza persuasiva che la stessa Corte aveva richiamato a pag. 27 della motivazione, necessaria al fine di riformare la decisione assolutoria. Tale maggior forza persuasiva non poteva certo derivare dalla mera lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in primo grado e da valutazioni e deduzioni compiute sulla base di una rivalutazione del compendio probatorio, incapace di superare il ragionevole dubbio, di per sé implicito nella situazione di contrasto fra le due pronunce di merito. Del resto, il legislatore, nell'introdurre l'art. 603 c.p.p., comma 3 bis, che fa riferimento ai "motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa", aveva abbracciato tutte le possibili sfaccettature dell'attività di valutazione della prova dichiarativa medesima, obbligando, in presenza dei presupposti, alla rinnovazione dell'istruttoria il giudice di appello che avesse inteso riformare in senso peggiorativo la pronuncia di primo grado. 5.2. Con il secondo motivo, i tre ricorrenti deducono violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte di assise di appello inquadrato la vicenda nell'ambito dell'istituto del concorso di persone nel reato continuato, anziché dell'operatività di una associazione a delinquere, senza considerare la difficoltà, ai limiti dell'impossibilità, di immaginare una partecipazione, occasionale e limitata, nei reati contestati, da parte di soggetti - i quali, presumibilmente, neanche si conoscevano tra di loro - che ricoprivano ruoli istituzionali in Stati spesso neanche confinanti e che hanno dato vita ad un'organizzazione paramilitare, basata sulla creazione di un sofisticato sistema di codici, scambio di informazioni crittografate e banche dati destinate a schedare tutti i potenziali soggetto ritenuti pericolosi per la stabilità politica delle dittature militari al potere. Segnalano l'importanza, in ottica ricostruttiva della fattispecie, del ruolo svolto, a supporto delle dittature sudamericane, dagli Stati Uniti, interessati ad agevolare l'azione diretta a reprimere gruppi e partiti di ispirazione marxista ed a promuovere, piuttosto che un accordo occasionale e circoscritto, un sodalizio stabile funzionale al mantenimento del potere conquistato mediante il sovvertimento dei preesistenti ordinamenti democratici, cioè al conseguimento di un obiettivo ben più ampio e complesso della mera fisica eliminazione degli esponenti dell'opposizione. I ricorrenti sostengono, dunque, che i fatti accertati meglio evidenziano, per l'indeterminatezza del programma criminoso, la realizzazione di una struttura assai complessa, i costanti ed ingenti flussi di finanziamento, la protrazione lungo l'arco di almeno un quinquennio dei reati-fine, l'esistenza di un'associazione a delinquere autonoma rispetto ai delitti concretamente realizzati In merito al c.d. "mandato in bianco", i ricorrenti rilevano che proprio dalla pronuncia richiamata dalla Corte di assise di appello si evince che il progetto criminoso orientato a colpire, in via esclusiva, l'insieme degli eventuali oppositori non è riconducibile al suddetto tipo di "mandato", e quindi alla fattispecie concorsuale, quanto, piuttosto, al delitto di associazione per delinquere. Ne discende che, per la configurabilità della fattispecie concorsuale del "mandato in bianco", le caratteristiche selettive atte a individuare le vittime non possono consistere unicamente nella loro appartenenza a un gruppo di opposizione identificato mediante un'ideologia politica confliggente con quella del presunto mandante, come avvenuto nel caso in esame. Conclusivamente, eccepiscono che la mera partecipazione associativa non può, di per sé, automaticamente tradursi nella responsabilità per i singoli reati commessi in attuazione del programma associativo, che presuppone, piuttosto, l'enucleazione, in capo all'associato, di una precisa condotta, dotata di efficienza eziologica rispetto all'evento antigiuridico, restando, al contrario, giuridicamente irrilevante una generica forma di coinvolgimento nella vicenda che ha portato alla violazione della norma incriminatrice. Carente qualsivoglia elemento, di natura dichiarativa o documentale, che possa collegare M.B.F., R.F.G. e M.G.M. al sequestro ed all'uccisione di C.P.H.D. e G.L.I.V., non potrebbe trarsi decisivo argomento, in funzione accusatoria, dalle funzioni istituzionali da loro ricoperte e dall'adesione al Piano Condor. Le precedenti considerazioni supportano la richiesta di riqualificazione delle condotte accertate ai sensi dell'art. 416 c.p. e la declaratoria di estinzione per prescrizione del reato associativo. 5.3. Con il terzo motivo, M.G.M. contesta - in chiave, ancora una volta, di violazione di legge e vizio di motivazione - alla Corte di merito di essere incorsa in un evidente error in iudicando nell'escludere il riconoscimento della scriminante prevista dall'art. 51 c.p., non avendo tenuto conto della cornice storico-politica nella quale vennero posti in essere i fatti oggetto del processo. L'America latina degli anni '70 aveva visto l'insediamento di dittature militari che avevano assunto pieni poteri attraverso il sovvertimento degli ordinamenti precedenti. In un simile contesto, nel quale gli stessi vertici militari erano titolari del potere legislativo, oltre che esecutivo, l'ordine impartito non poteva che essere legittimo, in quanto rispettoso dei dettami legislativi posti dalle dittature medesime. L'osservazione della Corte capitolina, relativa all'asserita autonomia decisionale dei sottoposti gerarchici, che si sarebbe posta in conflitto con l'applicabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., sarebbe stata smentita proprio dalla istruttoria svolta, in particolare in relazione alla posizione di C.D., arrestato proprio per avere rifiutato di ottemperare agli ordini ricevuti, che la Corte ha richiamato all'atto di escludere lo stato di necessità ex art. 54 c.p.. 5.4. Con il quarto ed ultimo motivo, i ricorrenti eccepiscono vizio di motivazione per avere la Corte di assise di appello affermato la loro penale responsabilità in ordine al reato loro ascritto sulla base della sola posizione rivestita in seno alle istituzioni peruviane e senza che, dall'istruttoria dibattimentale, siano emersi elementi di collegamento tra loro ed il sequestro e l'omicidio di C. e V., avvenuti tra il Brasile e l'Argentina. Aggiungono, con specifico riferimento al contributo garantito dalle autorità peruviane al sequestro in Lima, l'11 luglio 1980, di alcuni oppositori argentini, che la cattura e l'estradizione di tali soggetti, i quali, entrati illegalmente nel paese andino ed impegnati a preparare azioni sovversive a danno della sicurezza nazionale, era stata disposta in esecuzione di una prescrizione legislativa interna all'ordinamento peruviano (l'art. 70 della legge sugli stranieri) e non già in virtù dell'accordo criminoso che si assume essere stato sottoscritto dai vertici politici e militari di quel paese. 6. L'avv. Giancarlo Maniga, nell'interesse, tra le altre, delle parti civili costituite A.C. e V.P., ha depositato una memoria, con la quel, richiamati, in premessa, due precedenti arresti di questa Sezione in materia di sequestro e omicidio di desaparecidos (Sez. 1, n. 23181 del 20/04/2004, Suarez Mason; Sez. 1, n. 11811 del 26/02/2009, ric. Astiz), svolge considerazioni sulla qualificazione giuridica della vicenda, aderendo a quella ricondotta dalla Corte di merito allo schema della fattispecie di concorso di persone nel reato (e criticando quella, prospettata dalle difese degli imputati, basata sul reato di associazione per delinquere) e alla configurabilità del c.d. "mandato in bianco". Tratta, subito dopo, il tema dell'omessa rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, ritenendo infondata la relativa eccezione per mancanza del presupposto della "diversa valutazione" della prova dichiarativa, profilo in ordine al quale la Corte di assise di appello ha fornito, a suo modo di vedere, una puntuale motivazione, legittimamente procedendo a riconsiderare, nella loro interezza, le prove acquisite in primo grado. Aggiunge che la responsabilità dei c.d. quadri intermedi e delle figure apicali, nei casi d'interesse, è stata correttamente affermata, in conformità dei principi enunciati dalle decisioni in premessa citate, così come sono state correttamente escluse le scriminanti previste dagli artt. 51 e 54 c.p..

Considerato in diritto

1. In via preliminare, va dato atto che le posizioni processuali degli odierni ricorrenti M.B.F., M.G.M. e R.F.G. sono state separate da quelle dei restanti imputati, definite con sentenza di questa sezione n. 43693 del 09/07/2021, per la necessità di accertamenti sulla loro esistenza in vita, che hanno avuto esito per il solo Figueroa, del quale è stato verificato il decesso, come da relativa certificazione. I reati contestati al predetto imputato sono, pertanto, estinti, con la conseguenza che la sentenza impugnata, per quanto riguarda le statuizioni relative, deve essere annullata senza rinvio. 2. I ricorsi presentati nell'interesse di M.B.F. e M.G.M. sono, nel complesso, infondati e, pertanto, passibili di rigetto. Il primo motivo verte sull'omessa rinnovazione, in appello, dell'istruttoria dibattimentale, che si assume aver violato il disposto dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, a tenore del quale "Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale". La disposizione, introdotta dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 58 in una prospettiva di sostanziale continuità rispetto al quadro di principi stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze Dasgupta (n. 27620 del 28/4/2016, Rv. 267487) e Patalano (n. 18620 del 19/1/2017, Rv. 269785), non ha introdotto un generale ed indiscriminato obbligo di rinnovazione integrale dell'attività istruttoria - che porterebbe ad un'automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali - ma ha, più limitatamente, previsto una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice d'appello "decisive" ai fini dell'accertamento della responsabilità, secondo i presupposti già indicati nella sentenza Dasgupta. Coordinando la locuzione impiegata dal legislatore al comma 3-bis ("il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale") con quelle, del tutto identiche sul piano lessicale, già utilizzate nei primi tre commi della medesima disposizione normativa, deve, pertanto, ritenersi che il giudice d'appello è obbligato ad assumere nuovamente non tutte le prove dichiarative, ma solo quelle che - secondo le ragioni specificamente prospettate dal pubblico ministero impugnante - siano state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e vengano considerate decisive ai fini dello scioglimento dell'alternativa "proscioglimento-condanna" (Sez. 1, n. 12928 del 7/11/2018, dep. 2019, P., Rv. 276318). Nel caso di specie, l'impugnazione proposta avverso la decisione assolutoria non ha interessato il giudizio di attendibilità espresso dal primo giudice in relazione alle assunte prove dichiarative, sicché, correttamente, la Corte di assise di appello ha omesso di disporne, carenti le condizioni di legge, la rinnovazione. Al riguardo, è utile ricordare, aggiuntivamente, che la giurisprudenza di legittimità, impegnata a tracciare le coordinate ermeneutiche sul tema e, precipuamente, a delineare il significato della definizione di "motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa", contenuta nell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, ha affermato, con due recenti pronunce (Sez. 2, n. 13953 del 21/2/2020, Iacopetta, Rv. 279146 e Sez. 5, n. 27751 del 24/5/2019, 0., Rv. 276987), che il Collegio condivide, che per "motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa" debbano intendersi non solo quelli concernenti la questione dell'attendibilità dei dichiaranti, ma tutti quelli che implicano una "diversa interpretazione" delle risultanze delle prove dichiarative, posto che il loro contenuto - salvo che non attenga ad un oggetto del tutto definito o ad un dato storico semplice e non opinabile - è frutto della percezione soggettiva del dichiarante, onde il giudice del merito è inevitabilmente chiamato a "depurare" il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante, in modo da pervenire ad una valutazione logica, razionale e completa, imposta dal canone dell'"oltre ogni ragionevole dubbio". Ora, la Corte di assise di appello è pervenuta al "ribaltamento" della sentenza assolutoria di primo grado, concernente i c.d. "quadri intermedi", non per una diversa valutazione dell'attendibilità delle fonti dichiarative o per una differente interpretazione delle relative risultanze, ma in conseguenza della riconsiderazione complessiva - emendata, anzitutto, dagli errori di diritto in cui erano incorsi i primi giudici nella interpretazione della fattispecie del concorso di persone nel reato - dell'intero compendio probatorio, necessitata dalla sopravvenuta acquisizione, nel giudizio di secondo grado, di prove documentali integrative di una produzione già presente in atti, non analizzata in modo adeguato dal primo giudice. La Corte di merito si e', così, pienamente conformata ai criteri dettati in materia da questa Corte, anche in seguito alla introduzione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis alla stregua dei quali il giudice dell'appello è esonerato dall'obbligo di rinnovare l'istruttoria dibattimentale: a) nel caso in cui la reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado sia fondata, non già su un diverso apprezzamento in ordine all'attendibilità di una prova orale ritenuta in primo grado non attendibile, ma su una lettura coerente e logica del compendio probatorio palesemente travisato - anche per omissione - nella decisione impugnata (Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Esposito, Rv. 275133; Sez. 3, n. 45453 del 18/09/2014, C., Rv. 260867; Sez. 4, n. 4100 del 06/12/2012, Bifulco, Rv. 254950), ovvero, in misura determinante, su elementi esterni alle dichiarazioni della persona offesa non considerati nella decisione di primo grado (Sez. 5, n. 53415 del 18/6/2018, Boggi, Rv. 274593; Sez. 6, n. 16501 del 15/2/2018, Portaro e altri, Rv. 272886; Sez. 4, n. 49159 del 18/7/2017, Ferrara, Rv. 271518); b) nel caso in cui la prova dichiarativa sia valutata in maniera del tutto identica sotto il profilo contenutistico, ma il suo significato probatorio venga diversamente apprezzato nel rapporto con le altre prove (Sez. 5, n. 33272 del 28/3/2017, Carosella, Rv. 270471; Sez. 3, n. 19958 del 21/9/2016, dep. 2017, Chiri, Rv. 269782; Sez. 2, n. 3917 del 13/9/2016, dep. 2017, Fazi, Rv. 269592); c) nel caso in cui si pervenga al diverso approdo decisionale in forza della rivalutazione di un compendio probatorio di carattere documentale (Sez. 3, n. 36905 del 13/10/2020, Vergine, Rv. 280448; Sez. 2, n. 53594 del 16/11/2017, Piano, Rv. 271694; Sez. 5, n. 42746 del 9/5/2017, Fazzini, Rv. 271012); d) nel caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado basata su una diversa interpretazione della fattispecie concreta, alla luce della valutazione logica e complessiva dell'intero compendio probatorio (e non sulla base di un diverso apprezzamento della attendibilità di una prova dichiarativa decisiva: Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Esposito, cit.; Sez. 5, n. 47833 del 21/6/2017, Terry e altro, Rv. 273553). A fronte di soluzioni ermeneutiche ineccepibili, il ricorrente, pur riconoscendo a chiare lettere (cfr. pag. 15 del libello introduttivo del presente giudizio) che "l'attendibilità della prova dichiarativa non è stata, e non è tutt'ora, oggetto di discussione", sostiene che la Corte di assise di appello, vagliando la prova dichiarativa in uno a quella documentale e depurando il percorso motivazionale dagli errori di diritto compiuti dal giudice di primo grado, ha finito per operare, necessariamente, una nuova ed autonoma valutazione della prova dichiarativa che, pertanto, avrebbe dovuto essere nuovamente assunta in ossequio alla prescrizione normativa, per come, del resto, plasticamente dimostrato dalle considerazioni dedicate al contributo del teste M. ed al senso del riferimento, da lui operato, al "trasferimento" delle vittime di arresti illegali e sequestri. Trattasi, è agevole replicare, di obiezione fallace che, se condotta alle estreme conseguenze, conduce, paradossalmente, a ritenere che qualsiasi diverso apprezzamento del giudice d'appello, sebbene fondato su produzione documentale, lo obbliga, per ciò stesso, a rinnovare la prova testimoniale: prospettazione, questa, manifestamente infondata in diritto, in quanto enunciatrice di una regola processuale tutt'affatto diversa da quella esistente. Per contro, deve confermarsi che la Corte di assise di appello ha correttamente escluso di dover procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, in quanto, incontestate l'attendibilità delle fonti dichiarative e l'interpretazione del loro narrato, ha compiuto una rivalutazione logica e globale del materiale probatorio, tenuto conto della documentazione non considerata in primo grado (perché non esaminata tout court o perché acquisita nel grado successivo), così pervenendo a una diversa interpretazione della fattispecie concreta in contestazione e ravvisando, anche nei confronti di M.G.M., assolto in primo grado dall'addebito ex art. 575 c.p., gli elementi costitutivi del concorso nel delitto continuato di omicidio volontario. Il ricorrente, d'altro canto, non ha mosso specifiche censure sulla ricostruzione probatoria e, in particolare, sui documenti di nuova acquisizione o non valutati in primo grado ed ha proposto (cfr. pag. 22 del ricorso) una interpretazione dell'art. 603 c.p.p., comma 3-bis, tanto lata da costringere il giudice di appello, in contrasto con quanto sopra rilevato, a disporre la rinnovazione della prova dichiarativa in tutti i casi in cui la sua "valutazione", anche se non difforme da quella operata dal primo giudice, conduca alla riforma in senso peggiorativo per l'imputato della sentenza di primo grado. Ne', va da ultimo osservato, può essere presa in considerazione la generica censura difensiva, secondo la quale la motivazione della condanna di M.G. non avrebbe consentito il superamento della soglia dell'"oltre il ragionevole dubbio", atteso che proprio l'esame rigoroso e approfondito degli apporti documentali pretermessi in primo grado ha assicurato quell'accresciuto standard argomentativo, imposto per la riforma di una pronuncia assolutoria dalla richiamata regola prevista dall'art. 533 c.p.p., comma 1, prima parte. 3. Il secondo motivo, concernente la qualificazione dei fatti in termini di concorso di persone nel reato continuato anziché nell'ambito dell'associazione per delinquere e', del pari, privo di pregio. Sostengono, in proposito, i ricorrenti che ha errato la Corte di assise di appello nell'affermare la sussistenza di un concorso di persone nel reato continuato, laddove è chiaro che un sodalizio militare sorto tra vari Stati con il fine del mantenimento del potere mediante la persecuzione dell'opposizione politica (il Piano Condor) non potesse presentare i caratteri dell'occasionalità tipica del concorso suddetto, diretto per sua natura alla commissione di uno o più reati determinati, con la realizzazione dei quali si sarebbe esaurito: pertanto, la vicenda in esame avrebbe dovuto essere inquadrata nella fattispecie disciplinata dall'art. 416 c.p., di cui ricorrevano tutti gli elementi costitutivi. La contestazione in termini di concorso di persone nel reato sarebbe, pertanto, riduttiva, perché dimentica del contesto associativo in cui i fatti sono maturati, ed infondata, atteso che gli imputati sono stati condannati esclusivamente a causa del ruolo che hanno ricoperto e della funzione che hanno svolto in virtù dell'adesione che la forza a cui appartenevano aveva fatto al Piano Condor. Si tratta di censure che - come già anticipato - non trovano riscontro nella realtà processuale affrontata dalle Corti di merito. Premesso, invero, che, con riguardo al Piano Condor, il reato di cui all'art. 416 c.p. non è mai stato contestato dal pubblico ministero procedente e che, pertanto, in assenza di una contestazione originaria o suppletiva, in alcun modo il giudice di merito avrebbe potuto riqualificare le contestazioni, sì da ravvisare il reato associativo, deve notarsi come appaia del tutto fuorviante, in linea generale, ipotizzare una necessitata alternativa fra reato associativo e reati concorsuali, fattispecie che, sul piano dogmatico-strutturale, ben possono coesistere, ove contestate, nel rapporto tra reato-mezzo e reati-fine. L'omessa contestazione del delitto associativo rende, infatti, superflua l'indagine volta a comprendere se i reati oggetti di addebito abbiano costituito momenti attuativi di un accordo finalizzato esclusivamente alla loro realizzazione ovvero, al contrario, si siano iscritti nella cornice di una struttura ben definita, fatta di uomini, mezzi, programmi, finalizzata a conseguire il più ampio obiettivo del mantenimento del potere in capo alle dittature, destinata a permanere anche oltre ed a prescindere dalla commissione dei reati di sequestro di persona ed omicidio in pregiudizio degli esponenti dei gruppi di opposizione e resistenza. Diversa, e certamente rilevante, è quella che involge la verifica della corretta applicazione, da parte della pronunzia impugnata, dei principi informanti la fattispecie concorsuale contestata, in base ai quali è stata argomentata la condanna anche di M.G.M.. A quest'ultimo proposito, va rammentato che il giudice di primo grado ha ritenuto responsabili dei delitti di omicidio volontario premeditato in concorso solamente gli imputati che appartenevano ai vertici del potere politico oppure dirigevano i servizi di sicurezza militari e civili dei Paesi che avevano sottoscritto il Piano Condor, poiché da costoro erano stati impartiti gli ordini da cui erano scaturite, secondo modalità attuative costanti, le operazioni, che iniziavano con un sequestro di persona a scopo di estorsione e terminavano con l'uccisione della vittima. Con riguardo, invece, agli imputati ascrivibili ai "quadri intermedi" - in quanto componenti degli apparati operativi, coinvolti nei sequestri, nelle torture e nelle uccisioni - la prima Corte, ancorché ne abbia ravvisato il sicuro coinvolgimento in alcuni segmenti della vicenda, quali l'individuazione dei bersagli, il sequestro e la tortura, non ha reputato raggiunta la prova della loro compartecipazione negli omicidi ed e', perciò, pervenuta a decisione assolutoria. Secondo la Corte di assise (cfr. pagg. 49-50 della sentenza di primo grado) "le vittime, da una certa data in poi, uscivano dalla disponibilità degli imputati in quanto trasferite o comunque non più viste nell'ultimo centro di detenzione noto (e nel quale erano presenti i detti imputati), ma il fatto che si ignori se venissero uccise immediatamente dopo o trasferite ancora in altri centri di detenzione ed uccise a distanza di tempo (poiché si è verificato in un certo numero di casi che un prigioniero venisse deportato e avvistato, anche dopo un cospicuo lasso di tempo, in altro centro) rende arbitrario inferirne l'identità tra c a.rieri identificati e gli esecutori dell'omicidio, anche tenuto conto che gli imputati, per il tipo di qualifica che rivestivano di soggetti inseriti negli apparati di intelligence, erano specificamente addetti a compiti investigativi per espletare i quali necessitavano della disponibilità fisica dei prigionieri e della libertà di infliggere loro torture che non si estendevano automaticamente alla decisione di ucciderli (tanto è vero che non tutti i catturati sono morti, si pensi ad esempio alle numerose persone che sono venute a testimoniare nel presente procedimento), decisione di uccidere che, in difetto di ulteriori elementi, non può attribuirsi loro "oltre ogni ragionevole dubbio". Già a pag. 12, del resto, la Corte di assise si era così espressa: "Che gli autori degli arresti-carcerieri-torturatori potessero immaginare che alcuni dei loro prigionieri fossero destinati alla morte è ipotizzabile, ma non è certo. Infatti il destino dei prigionieri in alcuni casi era stato quello della liberazione, in altri casi la sottoposizione a un "processo-farsa" di fronte alla giustizia militare, e purtroppo, in numerosi casi, l'uccisione del detenutò". La lettura dei passaggi motivazionali teste' riportati porta alla luce la carenza di fondo che inficia l'argomentare della prima Corte di merito, la cui fragilità è rivelata dal voler ricostruire le vicende delittuose secondo una scansione rigidamente compartimentata da nette cesure, anche temporali. Siffatto approccio ha, tuttavia, portato i giudici di primo grado a eludere due fondamentali interrogativi, indotti dalle fattispecie contestate, e cioè: a) se le condotte pacificamente poste in essere (l'individuazione dei bersagli, il sequestro e/o la tortura) potessero essere apprezzate come latrici di un adeguato contributo causale rispetto al delitto di omicidio finale, a prescindere dalla materiale partecipazione ad esso degli imputati (sul punto, tra l'altro, contraddittoriamente, la Corte di assise ha affermato, a pag. 12, di non poter escludere che "talvolta, o addirittura spesso, i ruoli potessero coincidere", con riferimento a mandanti, sequestratorì, carcerieri/torturatori ed esecutori materiali); b) se, sotto il profilo psicologico, l'omicidio dovesse considerarsi esito anomalo e imprevedibile della complessiva azione criminosa oppure potesse ragionevolmente rappresentarsi, quanto meno sotto la forma del dolo eventuale, come prevedibile sviluppo causale di condotte a vario titolo realizzate da ciascuno dei partecipi, ma subordinate ad un unico scopo. Sotto quest'ultimo profilo, suscita perplessità, in diritto, l'atecnico rilievo, formulato dalla Corte di assise, secondo cui "e' ipotizzabile che i c a.rieri potessero immaginare che i loro prigionieri fossero destinati alla morte". Il diritto penale esprime, invero, il dolo come rappresentazione e volontà, onde è agevole rimarcare che, con l'ambigua espressione sopra riportata, la prima Corte di merito ha determinato l'insorgere di un dubbio interpretativo sul suo reale convincimento, in quanto: o ha ritenuto di escludere che vi fosse stata una qualsivoglia rappresentazione dell'evento morte in capo al gruppo dei sequestratori/carcerieri/torturatori, sicché avrebbe dovuto mandarli assolti per difetto dell'elemento soggettivo del reato (mancata rappresentazione dell'evento morte); oppure ha inteso ravvisare l'esistenza di tale rappresentazione, in termini di alta probabilità, e allora l'accettazione del rischio che l'evento rappresentato si verificasse avrebbe dovuto attrarre l'evento stesso nell'ambito del dolo omicidiario e, conseguentemente, giustificare la condanna degli imputati. La sentenza di primo grado risulta, pertanto, sul punto inficiata da manifesti errori in diritto: da un lato, trattando, contraddittoriamente, come ipotesi ciò che essa stessa concepiva come un'alta probabilità; dall'altro, e soprattutto, trattando come "ipotesi immaginativa" l'univoca rappresentazione dello sviluppo causale possibile. La pronuncia di secondo grado, viceversa, ha correttamente qualificato la incontestata realizzazione dei distinti segmenti di condotta ad opera del gruppo dei sequestratori/carcerieri/torturatori alla stregua di significativi e consapevoli contributi causali individuali all'evento morte, contributi sorretti da un elemento soggettivo configurabile non solo (quantomeno) come dolo eventuale, ma, più appropriatamente, come dolo alternativo rispetto a quello di lesioni (connesso alle torture inflitte in occasione degli interrogatori), così da renderlo compatibile con l'aggravante della premeditazione. Val la pena di ricordare, in argomento, che in tema di concorso di persone nel reato, stante la struttura unitaria del reato concorsuale, allorché si realizza la combinazione di diverse volontà finalizzate alla produzione dello stesso evento, ciascun compartecipe è chiamato a rispondere sia degli atti compiuti personalmente, sia di quelli compiuti dai correi nei limiti della concordata impresa criminosa per cui, quando l'attività del compartecipe - morale o materiale - si sia estrinsecata e inserita con efficienza causale nel determinismo produttivo dell'evento, fondendosi indissolubilmente con quella degli altri, l'evento verificatosi è da considerare come l'effetto dell'azione combinata di tutti i concorrenti, anche di quelli che non hanno posto in essere l'azione tipica del reato (così, tra le tante, Sez. 2, n. 51174 del 01/10/2019, Lucà, Rv. 278012; Sez. 1, n. 7442 del 08/05/1998, Negri, Rv. 210806). Quanto al profilo dell'elemento psicologico nella fattispecie concorsuale, è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte - e costantemente ribadito -che la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all'opera di un altro, che rimane ignaro (Sez. U, n. 31 del 22/11/2000, dep. 2001, Sormani, Rv. 218525). Tanto premesso, con riferimento al tema centrale del concorso di persone, va notato come la decisione oggi impugnata si inserisca nel solco già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione a vicende analoghe a quelle sottoposte al presente vaglio, verificatesi nel medesimo periodo di tempo e nel medesimo contesto storico-politico-militare. Il riferimento attiene, in particolare, alla sentenza n. 11811 del 26/02/2009, pronunciata da questa Sezione su ricorso di Alfredo Ignacio Astiz, imputato, in concorso con altri militari argentini, dell'omicidio continuato, premeditato e ulteriormente aggravato dalla crudeltà, in danno di alcuni cittadini italiani, residenti in Argentina. Le persone offese, durante la dittatura militare instaurata in quel Paese, furono illegalmente sequestrate, clandestinamente detenute, torturate presso la struttura segreta, denominata Grupo de tarea 3.3.2 (Centro clandestino di detenzione), all'uopo costituita nel più ampio complesso della Escuela de mecanica de la Armada (ES.M.A.), e, infine, soppresse. All'epoca della detenzione delle vittime, Astiz prestava servizio, quale ufficiale di marina, in seno al ridetto Grupo de tarea 3.3.2 della Escuela, incaricato della custodia, del trattamento e della soppressione dei prigionieri. La Corte di merito ritenne l'imputato compartecipe "di ogni singola uccisione prodotta dall'ente di appartenenza" in quanto ufficiale e, quindi, corresponsabile della "funzionalità" della struttura, istituzionalmente finalizzata alla repressione, alla violenza, alla tortura e, per rilevante percentuale di casi, anche alla uccisione dei prigionieri e alla soppressione dei loro cadaveri. La Corte di legittimità riconobbe la correttezza dell'applicazione fatta da quella territoriale dei principi in materia di concorso di persone nel reato e di nesso eziologico, osservando quanto segue: "Il tenente Astiz, esercitando proprie funzioni - di comando nei confronti dei graduati e dei militari a lui sottoposti e di collaborazione direttiva con gli ufficiali superiori - nel Grupo de tarea 3.3.2, concorse con piena consapevolezza nella compartecipazione delittuosa del mantenimento e della gestione della prigione clandestina ove furono segregate le tre vittime, in costanza della loro prigionia. Nulla rileva che la maggioranza (in ragione dei quattro quinti) delle persone ristrette non sia stata assassinata. La struttura carceraria, criminale annoverava, infatti, tra gli scopi istituzionali quello - effettivamente realizzato in danno di una rilevante percentuale dei prigionieri, determinata in ragione del venti per cento - della soppressione in segreto dei sequestrati che i carcerieri avessero reputato non recuperabili alla obbedienza del regime dittatoriale. L'imputato, peraltro, confidò alla testimone M.M.A. che alle esecuzioni capitali (mediante precipitazione da aeromobili in volo d'alta quota sull'oceano Atlantico) si faceva, talvolta, ricorso anche per necessità di sfollamento, quando il carcere non disponeva della capienza necessaria per ricevere nuovi prigionieri. Evidente e', peraltro, la relazione tra la prigionia clandestina (di tutte le persone sequestrate) e la eliminazione, perpetrata in modo occulto e segreto, dei prigionieri mandati a morte. La detenzione delle vittime, alla merce' degli aguzzini, e il carattere di segretezza che caratterizzava la prigionia, erano affatto funzionali alla perpetrazione degli omicidi e all'occultamento dei delitti. Epperò - a dispetto della mancanza della dimostrazione di personali contatti tra l'ufficiale e le tre persone offese - l'imputato colla zelante collaborazione prestata in posizione (se non apicale, pur tuttavia di indubbio rilevo) nella gestione della struttura carceraria criminale ove erano ristrette le vittime, ha offerto un contributo materiale alla causazione degli omicidi, in quanto, per l'appunto, la privazione della libertà dei sequestrati era istituzionalmente preordinata anche alla prospettiva della loro soppressione, della quale costituiva necessaria premessa e condizione. E, comunque, Astiz ha rafforzato, col proprio conforme delittuoso contegno di adesione alla scellerata repressione, la determinazione dei compartecipi (non identificati), i quali eseguirono personalmente gli assassini. Sicché, in applicazione delle norme del Codice Penale sul rapporto di causalità (art. 40), del concorso di cause (art. 41) e del concorso di persone nel reato (art. 110), il giudicabile è responsabile dell'omicidio di ogni persona sequestrata e detenuta nella prigione segreta, durante il periodo in cui l'ufficiale prestò colà servizio". L'indubbia analogia tra le funzioni esercitate dal tenente A. in seno alla struttura argentina dell'ES.M.A. e quelle svolte da M.G.M. - il quale è stato inserito nel novero dei soggetti appartenenti ai c.d. quadri intermedi (cfr. sentenza di primo grado, pagg. 115-116) perché, pur essendo posto al vertice del Servicio de Intelligencia del Ejercito, rivestiva un ruolo subordinato rispetto a R.F.G., circostanza che, a giudizio delle Corte di merito, rende dubbia la sua qualifica di responsabile del Piano Condor -in seno alla struttura di riferimento, parimenti costituita da centri di detenzione, interrogatorio e tortura degli oppositori politici poi uccisi, giustifica pienamente l'applicazione, anche nella presente vicenda, dei principi elaborati da questa Corte, di cui si è dato conto per l'affermazione della responsabilità degli imputati in ordine al delitto di omicidio aggravato in concorso. Dal complessivo ordito motivazionale, in coerenza con gli elementi probatori apprezzati e con le coordinate ermeneutiche illustrate, si coglie, inoltre, il lineare sviluppo argomentativo seguito dai giudici dell'appello nell'affermare, in sostanza, che, individuati gli oppositori politici e progettato il loro rapimento e il loro interrogatorio, gli esecutori di tali condotte - i c.d. quadri intermedi-accettarono ab initio il rischio della soppressione dei sequestrati, non rileva se durante la perpetrazione delle torture o successivamente. Già incompatibile con un dolo circoscritto alle lesioni si rivela, del resto, il tipo di torture inflitte, raccontato dai testimoni sopravvissuti, posto che le modalità attuative di esse ponevano a serio rischio la vita dei prigionieri (si intende far riferimento, ad esempio, alla tortura consistente nel "sottomarino bagnato" o nel "sottomarino asciutto", alla c.d. "pignada", con elettrodi inseriti all'interno della vagina o ai testicoli o dentro l'ano). Corretto, pertanto, è inferire da tali elementi fattuali, valutati globalmente siccome parametri sintomatici dell'animus necandi in base a consolidate regole d'esperienza, la certezza o, quanto meno, l'alta probabilità del verificarsi dell'evento mortale o lesivo, e, comunque, evidente, nella situazione concreta al momento della verificazione della condotta, l'accettazione di tale evento. D'altro canto, la documentazione convenientemente apprezzata dalla Corte capitolina ha portato la stessa ad escludere, in modo del tutto logico, che i rapimenti fossero semplicemente finalizzati alla effettuazione degli interrogatori e, quindi, al rilascio dei prigionieri. La ricostruzione emersa dal compendio probatorio, al contrario, consente, ragionevolmente, di affermare, come fa la suddetta Corte, che la decisione di uccidere i prigionieri veniva già presa al momento della loro localizzazione e del loro sequestro e rimaneva ferma, tanto che per la sua attuazione risultavano già predeterminati i luoghi e, sostanzialmente, i tempi: solo situazioni eccezionali come lo stato di gravidanza per le donne o la delazione con successiva collaborazione consentivano di mutare la decisione originariamente adottata, atteggiandosi, così, alla stregua di condizioni risolutive della stessa ( d.P.M.M., che collaborò con le autorità uruguaiane dopo il suo arresto, salvò la vita al fratello A., che venne, infatti, eccezionalmente rilasciato: pag. 64 della sentenza oggetto di ricorso). 4. Nell'ambito del secondo motivo di ricorso si colloca, poi, l'obiezione articolata con riferimento alla riconduzione delle fattispecie in contestazione alla figura del c.d. "mandato in bianco" che, a ben vedere, si palesa, anch'essa, destituita di giuridico fondamento. Nella lezione di questa Corte di legittimità si e', invero, affermato che configura un'ipotesi di concorso morale nel reato di omicidio il c.d. "mandato in bianco", ossia l'ordine impartito dall'agente di uccidere persone designate in funzione dell'appartenenza ad un certo gruppo, atteso che i soggetti passivi, anche se non indicati individualmente, sono determinabili in base a caratteristiche selettive rispondenti alle finalità perseguite dall'agente stesso (Sez. 1, n. 48590 del 17/10/2017, Schiavone, Rv. 271551). Anche con riferimento ad un contesto tipicamente mafioso, è stato chiarito che il mandato generico impartito dal capo dell'organizzazione di eliminare tutti i componenti di un clan rivale comporta il necessario concorso dello stesso mandante in tutti gli omicidi commessi, senza che il margine di indeterminatezza inerente a quel mandato possa ritenersi incompatibile con il principio di colpevolezza. Si tratta, infatti, di un incarico relativo ad un ambito ben definito di possibili vittime, che, peraltro, non può essere confuso con l'adesione ad un generico programma di un'associazione criminale, che ponga tra i propri fini la consumazione di una serie indeterminata di delitti. Altro e', infatti, ordinare l'uccisione di tutti i membri di una famiglia, anche se si lascia agli esecutori la scelta dei mezzi più appropriati, altro è costituire un'associazione destinata a commettere una serie non predeterminabile di omicidi. In un caso, il numero dei delitti può essere indeterminato, ma è pur sempre determinabile sulla base di uno specifico progetto di azione; nell'altro, il numero non è predeterminabile, perché viene in discussione un generico programma piuttosto che un progetto concreto (Sez. 5, n. 47739 del 12/11/2003, Arena, Rv. 227777). La Corte di assise di appello ha fatto esatta applicazione degli enunciati principi, spiegando che il mandato in bianco o mandato generico è configurabile, in relazione alla fattispecie del concorso di persone nel reato continuato, in vicende, come quelle in esame, caratterizzate dal fatto che "i bersagli da colpire" sono stati "individuati in funzione dell'appartenenza a specifici gruppi di opposizione" (come, ad es., i GAU, il PVP, il P.C.Ch., il MLP ecc.), appartenenza che, come emerso, veniva accertata dal circuito di informazione dei servizi di intelligence (che stilavano vere e proprie liste di "proscrizione") su input dei vertici politico-militari: dunque, il numero dei delitti, seppure potenzialmente indeterminato, era in concreto determinabile sulla base dello specifico progetto di azione consacrato nel Piano Condor. I ricorrenti hanno inteso dar forza alle loro deduzioni richiamando la giurisprudenza di legittimità che, nel delineare l'elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato, ha evidenziato essere detto elemento individuabile "nel carattere dell'accordo criminoso, che nel concorso si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati - anche nell'ambito di un medesimo disegno criminoso - con la realizzazione dei quali si esaurisce l'accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmati" (fra le più recenti, Sez. 5, n. 1964 del 07/12/2018, dep. 2019, Magnani, Rv. 274442). Alla luce dell'enunciato principio, il ricorrente ha qualificato come "riduttiva" la riconduzione allo schema della fattispecie concorsuale di episodi delittuosi che ben difficilmente potevano essere definiti "occasionali", in quanto, al contrario, posti in essere nell'ambito di un progetto organizzativo articolato, stabile e duraturo nel tempo, caratteristiche, queste ultime, che meglio si attagliavano al programma indeterminato di un'associazione per delinquere. La deduzione è manifestamente infondata in diritto. Ribadita, per le ragioni già esposte, l'impossibilità, per i giudici di merito, di riqualificare la vicenda in esame nell'alveo di una fattispecie (art. 416 c.p.) neppure contestata, giova precisare, con riguardo al criterio distintivo del concorso di persone nel reato continuato rispetto al reato associativo, che non può confondersi il riferimento alla "accidentalità" e "occasionalità" della concretizzazione dell'accordo criminoso con la "casualità" degli episodi, come sembra evincersi dalle deduzioni difensive. Come più volte affermato da questa Corte (si veda anche Sez. 5, n. 42635 del 04/10/2004, Collodo, Rv. 229906), il modo di svolgersi dell'accordo criminoso, nell'ipotesi concorsuale, avviene in via "occasionale e limitata" nel senso che esso è diretto soltanto alla commissione di più reati determinati, ispirati da un medesimo disegno criminoso che li comprenda e preveda tutti, quindi certamente non caratterizzati da fortuita casualità, concetto che, all'evidenza, stride, sul piano logico, sia con la "determinatezza" degli episodi delittuosi concordati sia, a fortiori, con la riconducibilità degli episodi stessi a un medesimo originario progetto criminoso, posto che un "progetto", in quanto tale, non può essere attuato secondo criteri casuali. Le conclusioni cui è pervenuta la Corte di secondo grado, nel ravvisare, in relazione agli omicidi pluriaggravati contestati agli imputati, il paradigma del concorso di persone nel reato continuato, si pongono, dunque, in linea con le coordinate ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza di legittimità, in quanto i reati giudicati sono risultati riconducibili ad un programma non generico e indeterminato (come quello tipico di un'associazione), ma predeterminato circa le fondamentali tipologie dei comportamenti criminosi da realizzare, teso a colpire una limitata categoria di vittime (oppositori politici individuati o individuabili come sopra precisato) e tendenzialmente limitato nel tempo (che non durasse oltre la necessità contingente di eliminare gli oppositori politici). 5. Gli odierni ricorrenti - al secondo e, quindi, al quarto motivo -deducono, nondimeno, di non avere in alcun modo preso parte all'attività connessa alla consumazione dei reati loro ascritti e lamentano, di conseguenza, di essere stati condannati in base ad una responsabilità "da posizione", legata ai ruoli da loro all'epoca rispettivamente ricoperti. La doglianza non coglie nel segno. L'adesione in corso d'opera del Perù, attraverso i più alti rappresentanti istituzionali, politici e militari, al Piano Condor determinò, infatti, come concordemente indicato dai giudici di merito e non contestato dai ricorrenti, un indubbio rafforzamento del sistema dal punto di vista organizzato ed operativo, grazie al restringimento dell'area del Sudamerica nella quale i gruppi di opposizione potevano progettare e coordinare le attività volte al sovvertimento dei regimi dittatoriali, in primo luogo di quello argentino, ed al parallelo ampliamento della gamma di strutture, corpi, apparati che, sotto l'interessata egida statunitense, si dedicavano alla complessa attività, coperta dalla garanzia di totale impunità, finalizzata alla localizzazione dei targets, e, quindi, al sequestro, alla deportazione, alla tortura e, infine, alla loro fisica eliminazione. L'allargamento al Perù della platea dei sottoscrittori del Piano Condor non sortì, del resto, effetti solo teorici, posto che, nel luglio del 1980, cioè a breve distanza temporale dalle vicende che ebbero per vittima C. e V., una cellula di montoneros argentini venne individuata, grazie alla decisiva cooperazione dei servizi peruviani, a Lima, e consegnata, di fatto, alle forze del paese di origine, nel quale gli oppositori vennero trasferiti. In questo contesto, la circostanza, a più riprese segnalata dai ricorrenti, che gli omicidi loro contestati furono eseguiti senza l'intervento loro o di altri soggetti o entità legate al Perù, non è preclusiva, come ineccepibilmente statuito dai giudici di merito, dell'affermazione della loro penale responsabilità in ordine a tali fatti, responsabilità che discende da un duplice presupposto. Da un canto, infatti, la richiamata riconduzione degli illeciti de quibus agitur allo schema del c.d. "mandato in bianco" introduce un diretto collegamento tra l'accordo condiviso, anche, dagli odierni ricorrenti ( M.B., quale capo di Stato, e M.G., quale esponente apicale di una primaria articolazione dei servizi informativi), con le omologhe entità degli altri paesi aderenti, e condotte criminose costituenti specificamente e direttamente attuative della pattuizione, che aveva ad oggetto il rintraccio, la neutralizzazione, la sottoposizione ad interrogatorio (agevolata dal ricorso alla tortura) e l'uccisione di dirigenti e militanti dei gruppi che, dall'esterno del paese di origine, promuovevano ed organizzavano l'azione di contrasto ai regimi dittatoriali, primo tra tutti quello argentino. Significativa e', sotto questo, profilo, la comune militanza nei montoneros di C., che era investito di un ruolo di spicco in seno all'organizzazione, e delle vittime del blitz eseguito in Lima l'11 luglio 1980 (poco importa, va qui notato in replica ad apposita obiezione difensiva, se l'iniziativa congiunta delle unità peruviane ed argentine sia stata o meno formalmente giustificata attraverso il riferimento alla legge interna sull'estradizione degli stranieri); coerente con l'ipotesi di accusa e', analogamente, il fatto che anche V. fosse cittadino argentino, oltre che italiano, e proprio in quel paese aveva svolto l'attività politica per la quale aveva patito, prima dell'espatrio, la detenzione. Acclarato che i reati in contestazione discendono, dal punto di vista eziologico, dalla originaria e cumulativa deliberazione - il cui contenuto era tale da consentire, ex ante, l'individuazione della platea delle vittime potenziali, circoscritta agli esponenti delle compagini, quale quella dei montoneros, attive nella resistenza e nel contrasto ai regimi dittatoriali - il contributo degli odierni ricorrenti alla loro realizzazione può essere apprezzato sul piano morale, in termini di rafforzamento del proposito criminoso, sulla scorta della considerazione della più intensa efficacia di un accordo criminoso che coinvolgeva anche istituzioni di paesi che, sino a quel momento, erano rimasti estranei al Piano Condor e che, anzi, come il Perù, si erano ispirati a una linea politica contrastante con quella seguita dagli altri Stati del Cono sud a far data dall'11 settembre 1973. Deve, pertanto, reputarsi esente dal denunziato vizio logico la ricostruzione, sottesa alla decisione impugnata, che vede i correi - quantomeno quelli argentini e brasiliani, direttamente coinvolti negli omicidi C. e V. -degli odierni imputati dedicarsi alle attività qui oggetto di contestazione sulla spinta di una determinazione resa più ferma ed intensa dalla consapevolezza che analoga collaborazione era, al contempo, assicurata dalle istituzioni peruviane, parallelamente impegnate nell'azione di intelligence che sfociò nell'arresto in Lima dei montoneros. La dilatazione del novero dei soggetti coinvolti, la collocazione degli odierni ricorrenti, ivi compreso R.F.G., al vertice delle istituzioni politiche e militari, la coscienza di potere, all'occorrenza, contare, per la traduzione in termini concreti del progetto elaborato e sottoscritto, sull'ausilio di persone animate da un comune affiato hanno, dunque, concorso alla decisione, adottata dai correi argentini e brasiliani, di sequestrare, torturare ed uccidere C. e V.. Le precedenti considerazioni impongono, in definitiva, il rigetto del secondo e del quarto motivo di ricorso. 6. Con il terzo motivo, M.G.M. si duole del mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell'adempimento del dovere prevista dall'art. 51 c.p. ed assume, in specie, che egli, in quanto appartenente ai quadri intermedi in un contesto gerarchico-militare, non aveva il potere di vagliare la legittimità dell'ordine di un superiore, che era, viceversa, tenuto ad eseguire, con conseguente applicazione della scriminante invocata. Trattasi di prospettazìone manifestamente infondata in diritto. Più volte, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ha statuito che non è applicabile la causa di giustificazione dell'adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) qualora il soggetto abbia agito in esecuzione di un ordine illegittimo impartitogli dal superiore gerarchico (Sez. 5, n. 16703 del 11/12/2008, dep. 2009, Palanza, Rv. 243332). A fortiori il principio è stato ribadito nei casi in cui l'ordine illegittimo impartito da un superiore gerarchico costituisca manifestamente reato, atteso che, in tali casi, il subordinato destinatario non solo non è tenuto ad eseguire l'ordine criminoso, ma deve informare al più presto i superiori (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi, Rv. 253546; Sez. 3, n. 18896 del 10/03/2011, Riccio, Rv. 250284; Sez. 5, n. 6064 del 25/11/2008, dep. 2009, Marino, Rv. 243325). Venendo al caso di specie, deve ritenersi priva di pregio la deduzione difensiva secondo cui la cornice storico-politica nella quale vennero posti in essere i fatti oggetto del processo sotto il governo di dittature militari insediatesi con pieni poteri e la provenienza dell'ordine dal vertice che era al contempo potere legislativo e potere esecutivo lo avrebbero reso, di fatto, insindacabile. Ed invero, la Corte di merito, con puntuale riferimento ai dati fattuali e con argomentazioni prive di salti logici, incensurabili in sede di legittimità, ha adeguatamente evidenziato come tutti gli imputati, e quindi anche M.G., fossero perfettamente a conoscenza della esatta situazione relativa alla esecuzione del progetto di eliminazione (eventualmente anche fisica) degli oppositori politici, scandito dalle varie fasi, succedutesi in un sufficientemente ampio arco temporale, della individuazione dei soggetti da arrestare, del loro sequestro, della successiva detenzione clandestina con sottoposizione a torture, e della definitiva eliminazione con occultamento dei cadaveri. Si legge, in particolare, alle pagg. 98 e seguenti della sentenza impugnata, che il personale inquadrato negli apparati preposti all'attività di intelligence e di repressione "...operava in stretto contatto con i vertici militari e con l'capi dei governi del Paese di appartenenza con i quali condivideva gli "ideali", dai quali riceveva le direttive e ai quali forniva periodiche relazioni sull'andamento dell'attività repressiva che organizzava in piena autonomia, avvalendosi di collaboratori fidati. Alcuni di essi, inoltre, rivestivano anche l'incarico di ufficiali di collegamento con l'corrispondenti apparati dei Paesi amici in attuazione di quella collaborazione e circolazione di informazione, di cui si è detto, e che accompagnò l'attività repressiva in esame. Il personale in questione, dunque, indipendentemente dal grado militare rivestito in seno all'arma di appartenenza, era particolarmente qualificato e esperto: fortemente motivato, severamente selezionato, determinato, spregiudicato e crudele, solidamente formato, capace di pianificare le strategie di intervento, di organizzare uomini e risorse economiche, di assumere iniziative e di impartire ordini, di partecipare alle sedute di interrogatorio e di torture grazie alla profonda esperienza maturata negli anni. Del resto è ragionevole ritenere che gli ideatori del Piano Condor, individuato l'obiettivo da raggiungere, si affidassero, per la sua realizzazione, a persone di provata fiducia che ne condividessero gli intenti e che sapessero tradurre in atto quanto da loro teorizzato e, poiché l'attività repressiva era stata pensata su larga scala, la sua esecuzione richiedeva, necessariamente, autonomia nella scelta deì tempi, dei luoghi di intervento e delle persone da colpire (purché appartenenti ai gruppi di opposizione attenzionati), ampiezza di poteri, spirito di iniziativa e capacità di fronteggiare gli imprevisti per assicurare il successo dell'operazione che si fondava, sostanzialmente, sulla sorpresa della vittima e sulla celerità dell'arresto. (...) Gli imputati, definiti dal primo giudice "quadri intermedi", quindi, erano tutt'altro che subalterni, ignari di quanto stava accadendo, ma, al contrario, pur dipendenti, nella scala gerarchica, dai vertici militari e dai capi di governo, erano i loro più stretti collaboratori, costituivano un'e'lite stabile e immutabile nella sua composizione e ricoprivano ruoli di rilievo all'interno dell'intelligence e delle strutture di coordinamento e repressione della lotta sovversiva, dotati, come già detto, di autonomia decisionale sull'organizzazione di operazioni, mezzi, uomini e risorse economiche. Questi, dunque, conoscevano l'obiettivo perseguito dai loro superiori ed erano consapevoli di concorrere, con l'individuazione delle singole persone da arrestare, al conseguimento del risultato; lo conferma la spavalderia mostrata dai militari che operavano nei centri di detenzione, forti del silenzio e dell'inattività serbati dalle autorità costituite a fronte delle denunce presentate dai congiunti deì sequestrati...". Nella ineccepibile analisi sviluppata dai giudici di secondo grado, pienamente fedele alle esposte evidenze processuali, è dato enucleare, dal complessivo coerente argomentare, l'affermazione portante e conclusiva per la quale i convincimenti ideologici e di natura politico-militare, e gli atteggiamenti psicologici d'indifferenza o, addirittura, di adesione alla manifesta criminosità dell'ordine superiore, lungi dal giustificare i comportamenti delittuosi deì subordinati, costituirono segnali inequivocabili e certi della cosciente rappresentazione da parte di costoro del carattere palesemente delittuoso dell'azione imposta, commessa su prigionieri inermi e fiaccati dalle torture subite, in violazione dei più elementari principi dello ius gentium (sul tema della scriminante di cui all'art. 51 c.p. cfr. anche, negli stessi termini, Sez. 1, n. 12595 del 16/11/1998, Hass, in motivazione). Ne', va conclusivamente notato, la tesi difensiva può giovarsi, come già precisato dalla Corte di assise di appello, delle informazioni acquisite in merito alla posizione del coimputato, assolto, C.D., il quale, avendo rifiutato di eseguire ordini che egli stimava illegittimi, fu sottoposto a disciplinare, con tangibili conseguenze sul suo status ma non tali da esporlo ad un rischio per la vita o l'incolumità personale e, quindi, ad un danno grave alla persona non altrimenti evitabile. 7. Dalle precedenti considerazioni discende il rigetto dei ricorsi di M.B.F. e M.G.M., che vanno, pertanto, condannati, ciascuno, al pagamento delle spese processuali e tutti, in solido, a rifondere alle parti civili le spese di costituzione e difesa sostenute nel presente grado di giudizio, che vanno liquidate per C.M. e C.M. in Euro 6.000, oltre accessori, e per la Presidenza del Consiglio dei Ministri in Euro 2.100, oltre accessori.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di R.F.G. perché il reato è estinto per morte dell'imputato. Rigetta i ricorsi di M.B.F. e M.G.M., che condanna al pagamento delle spese processuali e, inoltre le spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro 2.100 per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed Euro 6.000 ciascuna per C.M. e C.M., oltre accessori di legge.
Avv. Antonino Sugamele

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